La nostra storia

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Quando le spose vengono in atelier e mi chiedono il significato di USIRA, come fosse un acronimo, sorrido e volentieri racconto la storia di questo nome così singolare ed originale, come lo era persona che per tanti anni l’ha portato e fatto conoscere. Ricordo la notte che se ne andò, corsi all’ospedale sapendo che sarebbero state le sue ultime ore, l’angoscia del distacco si associava alla paura per una “eredità” che era giusto portare avanti. Aveva fondato una azienda nel 1948 e tanti anni di lavoro, fatica e anche celebrità non potevano finire.

Giurai a me stessa che avrei portato avanti con mio marito e mia cognata l’azienda, per noi ma anche per lei. Usira aveva cominciato a lavorare giovane e aveva, assieme alla cognata Argenide, una merceria in centro al paese, dove ora c’è la Banca popolare. Confezionava guarnizioni di pelliccia e cappelli con i materiali che la sua creatività suggeriva. Non era solo il “bisogno” a farla lavorare, aveva intuito la sua natura e il suo talento.

Una fantasia fervida, una manualità naturale, un gusto originale ed innato la spingevano ad inventare, a creare, fino al giorno in cui una rappresentante di mercerie vide alcune sue creazioni per la comunione delle bambine. Ne rimase entusiasta fino al punto da convincerla a produrne per una ditta Milano. Erano i primi anni ’50, il mercato era “vergine”, bastava avere voglia di lavorare e capacità di proporre prodotti. Fu per lei il trampolino di lancio.

Dalle acconciature passò a produrre gli abiti per la comunione. Il vecchio magazzino per il carbone divenne il suo laboratorio dove cominciarono a lavorare quelle che chiamava “le mie ragazze”. Le paghe gliele confezionava dentro un sacchettino di tulle fatta a foglia. E tante ragazze e giovani donne contribuirono a far crescere l’azienda. Lei si alzava all’alba per tagliare perché poi non si avevano più tempo, c’era il lavoro da seguire e le clienti. Durante l’inverno si producevano centinai di abiti per le comunioni di primavera. Nei primi anni ’60, verso febbraio, arrivò inaspettata una telefonata da Milano che portò lo sconcerto nel piccolo laboratorio.

La curia aveva ordinato che si dimettessero gli abiti da comunione belli e ricchi per adottare delle tuniche molto semplici prodotte dalle suore. Usira si trovò davanti gli scatolino accumulati in magazzino pronti per essere spediti e che il grossista non voleva più. Si dovevano pagare i tessuti, le operaie ma lei non si perse d’animo. Scrisse al papa spiegando le sue ragioni: non si poteva lasciare così, senza lavoro dall’oggi al domani lavoratori che avevano già speso denaro ed energia. Dopo un po’ di giorni arrivò una telefonata da un cardinale che dava della bugiarda a mia. Anche questa volta non le mancò l’energia per reagire e tale fu la sua determinazione che dopo pochi giorni telefonò il grossista di Milano gridando al miracolo perchè il provvedimento era stato revocato.

Intanto il piccolo laboratorio si allargava, inglobando la barchessa attigua, così pure il lavoro. Non più solo abiti da comunione ma anche da sposa aveva conquistato la sua creatività e le clienti cominciarono ad arrivare. A metà degli anni ’60 Torino era la vetrina della moda e Eli, assieme alla figlia Emirosa e al figlio Fausto, decise di partecipare al salone della mode: il SAMIA. Partivano da Sandrigo cariche di tutto quello che poteva servire per l’allestimento dello stand, con gli abiti e tanta speranza e coraggio. Queste vennero indubbiamente premiate perchè la clientela si allargò e si cominciarono a produrre abiti per i negozi.

HARPER’S BAZAAR si accorse di Usira e le dedicò un articolo nella prestigiosa rivista. Un giorno del 1965 passò per la piazza una macchina da cui scese una signora per chiedere dove fosse il laboratorio di Usira: era Gigliola Cinquetti. Si Sparse in poco tempo la voce per il paese. La sorella della cantante desiderava farsi fare l’abito da sposa. Con gioia e orgoglio le fu confezionato un vestito e la sua foto con Gigliola è appesa ancora nel nostro atelier.

Nel 1983 arrivò un prestigioso riconoscimento di cui andava fiera. La sua associazione, quella degli artigiani la nominava “Maestro artigiano”. Ricordo la foto sul palco assieme ai colleghi, era l’unica donna. Ci fu poi Milano che accolse in nuove fiere le sue creazioni che si avvalsero della mia collaborazione. Fu una maestra severa, non dava molto spazio, ma come poteva, aveva fatto tutto da sè, credendo solo in nei. Quando ci siamo tra sferite nel suo nuovo negozio confesso che non è stato facile lasciare quei muri pieni di storia, ma così è la vita… a volte si lascia per costruire ancora e le mie sposa me lo confermano.

Il lavoro è stato per Usira la sua fede, la sua forza, un lavoro pregno di fatica, di soddisfazioni, di valori che non vennero mai meno e che insegnò a molte persone.

Gabriella Pezzin Fabbris (nuora), Usira